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VITA DA GENI

È tipico: quando so che devo inderogabilmente fare qualcosa, e che non posso più dilatarla nel tempo o postergarla per ovvie ragioni climatiche, mi urge la necessità di scrivere.

Sembra che la musa sia dispettosa quasi quanto la sottoscritta e qualcun altro che io conosco.

O semplicemente sapere di dover affrontare la cabina armadio e tutto quello che comporta fare il cambio di stagione, mi provoca una narcolessia istantanea solo risolvibile con un caffè americano e una tastiera. È di famiglia: a mia madre provocava un’impellente necessità di cucinare – e lei odia cucinare -, così spariva tutte le volte che ci accingevamo (leggi mi accingevo), a fare il suo cambio di stagione, con relative chiamate nei mesi seguenti, in base al classico copione – “Dove hai messo tale giacca? E i cappelli? – Seguito da un lungo eccetera. Sembra tratto da un film di Woody Allen.

Ritornando al “mio” cambio di stagione, sono perplessa: durante l’ultimo trasloco ho fatto una cernita infinita, le più grandi pulizie della storia, tra scarpe, borse, vestiti e accessori e, nonostante ciò, continuo ad avere un guardaroba valido per 5 persone.

Inimmaginabile oggigiorno poterselo rifare. Lo ammetto, sono stata fortunata al vivere un’epoca che sicuramente non si ripeterà e che le nuove generazioni potranno solo immaginare. Sarà stato anche per i luoghi in cui ho vissuto o viaggiato, per il tipo di lavori che ho svolto, ma fatto sta che è splendido, svariato, originale, creativo, con classe e non riesce ad annoiarmi nonostante alcuni pezzi abbiano ormai decenni.

Non posso dire la medesima cosa del formaggio. Vai tu a spiegarglielo che il formaggio mi annoia al signore del banco dei formaggi francesi del mercato. Tutte le volte che mi vede, mi chiama e mi rassegno a mezz’ora di fitta conversazione in francese, perché per lui, nonostante il mio accento ginevrino (per grande dispiacere di M. Bertrand, il mio storico prof del CCF, e somma soddisfazione di Tonton Edmond che dal cielo mi starà sorridendo), gli sembra di essere a casa, e può divagare tra formaggi e vini in una sorta di tour gastronomico in lingua gallica. Per farlo contento alcune volte ho comprato del formaggio per la Raclette o per i fenouils au gratin, ma la vista di tutti quei formaggi insieme mi produce un effetto soporifero.

Peccato che non mi succeda la stessa cosa davanti ad una vetrina di scarpe, possibilmente di Jimmy Choo o Blanik.

È difficile essere meOrmai alla terza tazza di caffè mi devo decidere: un antistaminico per la polvere che immancabilmente si accumula in scatole, valige e ceste, e una buona dose d’ingegno per sistemarlo con più logica possibile.

Ho abbandonato il sistema per colori, e mi decanto per genere (vestiti da sera, vestiti da giorno, vestiti casual, vestiti da mare), seguito dalla suddivisione cromatica, perché anche l’occhio vuole la sua parte. È un lavoro da geni.

E a proposito di geni: di questo volevo scrivere oggi. Se a differenza della classe, che in dosi limitate si può imparare ma che alla fin fine è solo educazione – mentre la classe vera e propria è qualcosa con cui si nasce -, GENI si diventa, non si è.

Un po’ come intelligenti si diventa, e lo dico sul serio. È ovvio che se uno possiede una mente impermeabile alla comprensione c’è poco da fare, ma se parliamo d’intellighenzia, non ci si può limitare a quello che stabilisce il Q.I. come parametro standard. Di fatto, non è singolare bensì duale: da un lato c’è l’intelligenza mentale e il numero di cromosomi che ci definiscono come ritardati o come geni, e dall’altra c’è l’intelligenza emozionale molto più importante e senza la quale il Q.I. rimarrebbe solo un indice privo di significato. Se con il Q.I. si nasce o almeno la sua base ci viene dalla nascita, l’intelligenza emozionale si può imparare. Ci sono persone che la posseggono in modo innato, ma nella maggioranza dei casi s’impara a forza di sbatterci la testa o non s’impara e si resta idioti tutta la vita. Alcuni la chiamano furbizia. È la capacità dell’essere umano di dispiegarsi tra le difficoltà e le varie situazioni che lungo la nostra esistenza si presentano innanzi a noi. È la capacità di interagire con gli altri, di applicare la nostra intelligenza nelle situazioni pratiche, quotidiane, di risolvere i conflitti, di relativizzare e di sentire empatia, insomma è la sintesi dell’equilibrio e la giusta via di mezzo tra l’abnegazione e l’egoismo più sfrenato. Il saper discernere tra ciò che desideriamo e ciò che è meglio per noi. La flessibilità versus l’ostinazione, la capacità di visione globale di una situazione, senza per questo perderne i dettagli più insignificanti. Il sapere relativizzare e rendere positive le situazioni più negative.

L’intelligenza emozionale è disciplina, autocontrollo, una buona dose di autoironia e immedesimazione per situazioni e sentimenti altrui. È anche una discreta dose di filosofia, la capacità di accettare ciò che non dipende da noi. In definitiva è l’uso applicato e l’ottimizzazione dei nostri talenti in un contesto sociale, che ci aiuti a vivere meglio.

La stessa cosa vale per la genialità. Geni si diventa, non si è. Si può avere il talento, ma quello che ti rende veramente un genio è l’attitudine.

Ecco perché di geni in vita ce ne sono pochi, perché quando ci si rende conto di avere il talento, ci si ritiene così soddisfatti di se stessi e ci si dedica a coltivarlo che ci si dimentica la parte più importante: la vera attitudine perché uno il genio lo faccia di professione e con lauti guadagni a parte soddisfazioni.

Una volta, un mio ex collega, direttore sanitario di un ospedale, in una cena sociale a casa mia, si mise ad aprire tutti gli armadi di casa e davanti alla mia “eufemistica” perplessità per tanta sfacciataggine, esclamò: “Ma allora sei proprio così, non è solo un’immagine che dai! Sono due anni che mi chiedo se il tuo stile è solo apparenza e come riesci a essere sempre così perfetta. Speravo in un disastro scatologico nascosto dietro qualche anta”.

Posso solo dire che la perfezione è un’illusione, anche se…. è difficile essere me.

Silvia